Marta Sanz (Madrid, 1967) è una scrittrice spagnola. Ha esordito nel 1995 con il romanzo El frío; in seguito ha sperimentato diversi generi letterari e con il romanzo Showbiz ha ottenuto nel 2015 il Premio Herralde. Attualmente collabora inoltre con El País e altre testate giornalistiche.

Gli articoli qui di seguito sono riprodotti per gentile concessione di El País.

Distopica

di Marta Sanz

traduzione di Nicole Marsili

articolo pubblicato su El País

 

All’inizio si è trattato di un’esagerazione poi mutata in stupore, istupidimento, incredulità. Nella sensazione, così letteraria, di vivere una distopia. La letteratura è durata poco o è rimasta offrendoci un posto in cui custodire la gioia e resistere. Il pericolo si è poi mostrato a viso aperto. Sospensioni, cancellazioni, rinvii. Correzioni sul libro contabile. All’inizio, più che la paura della malattia si è trattato della paura di non poter lavorare. La patologia radicale del capitalismo avanzato: l’impotenza che si prova quando intuisci che se non ti salvi da solo, nessuno lo farà. Ora, mentre corro lungo il corridoio di casa mia, mi immagino un altro scenario: mi rendo conto della gravità non tanto della mia situazione, quanto di quella di tutti, ho fiducia nella responsabilità collettiva ed esprimo il mio sostegno agli operatori sanitari. In particolare, agli operatori della sanità pubblica, che sono stati esposti fin dall’inizio e sono vulnerabili e sfiniti.

 

Mi interessano le interpretazioni di Morelli e David Trueba a proposito di questa crisi sanitaria. Ora, italiani, tedesche e spagnole, siamo noi il centro nevralgico del contagio e dell’infezione. Noi siamo quel virus straniero con cui Trump erge il muro del razzismo e della xenofobia, e che dobbiamo contenere per non massacrare chi è endemicamente debole: paesi senza infrastrutture sanitarie, con carestie, in guerra. Il coronavirus ci costringe a pensare in modo da rendere evidenti contraddizioni di difficile soluzione dialettica: la disumanizzazione, che comporta la rinuncia alla vita sociale, è mitigata dal legame sottile delle nuove tecnologie oggi indispensabili, che però intensificano alcune disuguaglianze e non possono sostituire la fisicità e la forte socializzazione, che sono fondamentali per un’educazione completa, soprattutto quella infantile; l’igienismo, oggetto di derisione, si contrappone a un edonismo di cui non riusciamo a fare a meno, ma che diventa osceno quando, in piena allerta sanitaria, ce ne andiamo in vacanza nelle nostre seconde case; riadattiamo l’idea di ciò che è irrilevante e di ciò che è grave, prioritario; ripensiamo alle nozioni di autosfruttamento e di sfruttamento del lavoro in un contesto in cui il telelavoro puntualmente ci salva, anche se in seguito può mostrare il lato oscuro della flessibilità e dell’iperconnessione: l’eterna disponibilità e l’indotto desiderio di essere sempre disponibile, l’ansia di non esserlo; la libertà individuale, semplificata in “mi bevo una birra quando mi pare”, si antepone al bene comune e si reinterpretano solidarietà, egoismo, empatia...


Penso e ripenso, quando la mia amica Ángeles mi invia un audio e temo, oggi che l’umorismo ci salva dall’annegamento, che questo invito non sia uno scherzo: “Fratelli, andiamo in strada, non succederà assolutamente nulla, dobbiamo andare a baciare mani e piedi, state tranquilli, vogliono attaccarci, non temete, fratelli, andiamo in strada ora!” Così io, che pure non vedo l’ora che ritornino pelle, abbracci e librerie, mi chiedo in cosa consista la mia percezione distopica, ricordo la Spagna delle bande e dei tamburelli, l’isteria collettiva, le lacrime di sangue, e mi chiedo come fermeremo questa pandemia mentre mi mancano la razionalità, lo spirito illuminato e, nonostante i suoi effetti privatizzanti, la stessa desamortización di Mendizábal.

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